Palazzo del Quirinale, 10/02/2023 (II mandato)
Rivolgo un saluto molto cordiale al Presidente del Senato, al Vicepresidente della Camera, al Vicepresidente del Consiglio, agli altri rappresentanti del Governo, agli Ambasciatori dei Paesi amici presenti, ai rappresentanti degli esuli.
Sono passati quasi vent’anni da quando il Parlamento istituì, con una significativa ampia maggioranza, il Giorno del Ricordo, dedicato al percorso di dolore inflitto agli italiani di Istria, Dalmazia, Venezia Giulia sotto l’occupazione dei comunisti jugoslavi nella drammatica fase storica legata alla Seconda Guerra Mondiale e agli avvenimenti a essa successivi.
La legge, con puntuale completezza, recita: “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del Ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Vessazioni e violenze dure, ostinate, che conobbero eccidi e stragi e, successivamente, l’epurazione attraverso l’esodo di massa. Un carico di sofferenza, di dolore e di sangue, per molti anni rimosso dalla memoria collettiva e, in certi casi, persino negato. Come se le brutali vicende che interessarono il confine orientale italiano e le popolazioni che vi risiedevano da secoli rappresentassero un’appendice minore e trascurabile degli eventi della fosca epoca dei totalitarismi o addirittura non fossero parte della nostra storia.
In realtà, quel lembo di terra bagnato dall’Adriatico, dove per lungo tempo si è esercitata, con fatica e con fasi alterne, la convivenza tra etnie, culture, lingue, religioni, ha conosciuto, sperimentandoli e racchiudendoli, tutti gli orrori della prima metà del Novecento, passando – senza soluzione di continuità – dall’occupazione nazifascista alla dittatura comunista di Tito.
Un territorio colmo di ricchezza, di bellezza e di cultura, alimentato proprio dalle sue differenze, che ha subìto il destino immeritato di veder sorgere sul proprio suolo i simboli agghiaccianti degli diversi totalitarismi: le Foibe, il campo di prigionia di Arbe, la Risiera di San Sabba.
Ringrazio tutti gli intervenuti: il ministro Tajani, il professor De Vergottini, il professor Orsina, per le importanti riflessioni; l’Orchestra Tartini, la magnifica orchestra giovanile e femminile; Maria Letizia Gorga per aver dato corpo e voce ai ricordi di una bambina esodata.
Ricordi tratti da un libro le cui pagine coinvolgono chi lo legge, come a me, leggendolo tempo fa, è avvenuto.
Tutti loro hanno contribuito, oggi, a fare memoria di quegli accadimenti tristi e violenti e a farla condividere.
La legge sul “Giorno del Ricordo” ha avuto il merito di rimuovere definitivamente la cortina di indifferenza e, persino, di ostilità che, per troppi anni, ha avvolto le vicende legate alle violenze contro le popolazioni italiane vittime della repressione comunista.
Negli ultimi decenni la ricerca storica ha prodotto risultati notevoli, scandagliando a fondo gli avvenimenti e riportando alla luce una mole impressionante di fatti, documenti e testimonianze inoppugnabili. Via via sono emersi i nomi e le vicende delle vittime.
La furia dei partigiani titini si accanì, in modo indiscriminato ma programmato, su tutti: su rappresentanti delle istituzioni, su militari, su civili inermi, su sacerdoti, su intellettuali, su donne, su partigiani antifascisti, che non assecondavano le mire espansionistiche di Tito o non si sottomettevano al regime comunista.
Le violenze anti-italiane, nella maggior parte dei casi, non furono episodi di, inammissibile, vendetta sommaria. Rispondevano piuttosto a un piano preordinato di espulsione della presenza italiana.
Figure luminose, in quella terra martoriata – come il vescovo di Fiume e poi di Trieste/Capodistria, Antonio Santin – non esitarono, dopo aver difeso la popolazione slava dall’oppressione nazifascista, a denunciare, con altrettanta forza d’animo, la violenza e la brutalità dei nuovi occupanti contro gli italiani.
Nessuno deve avere paura della verità. La verità rende liberi. Le dittature – tutte le dittature – falsano la storia, manipolando la memoria, nel tentativo di imporre la verità di Stato.
La nostra Repubblica trova nella verità e nella libertà i suoi fondamenti e non ha avuto timore di scavare anche nella storia italiana per ricoscere omissioni, errori o colpe.
La complessità delle vicende che si svolsero, in quegli anni terribili, in quei territori di confine, la politica brutalmente antislava perseguita dal regime fascista, sono eventi storici che nessuno oggi può mettere in discussione.
Va altresì detto, con fermezza, che è singolare e incomprensibile che questi aspetti innegabili possano mettere in ombra le dure sofferenze patite da tanti italiani. O, ancor peggio, essere invocati per sminuire, negare o addirittura giustificare i crimini da essi subiti.
Per molte vittime, giustiziate, infoibate o morte di stenti nei campi di prigionia comunisti, l’unica colpa fu semplicemente quella di essere italiani.
Siamo oggi qui, al Quirinale, per rendere onore a quelle vittime e, con loro, a tutte le vittime innocenti dei conflitti etnici e ideologici.
Per restituire dignità e rispetto alle sofferenze di tanti nostri concittadini. Sofferenze acuite dall’indifferenza avvertita da molti dei trecentocinquantamila italiani dell’esodo, in fuga dalle loro case, che non sempre trovarono rispetto e solidarietà in maniera adeguata nella madrepatria.
Furono sovente ignorati, guardati con sospetto, posti in campi poco dignitosi.
Tra la soggezione alla dittatura comunista e il destino, amaro, dell’esilio, della perdita della casa, delle proprie radici, delle attività economiche, questi italiani compirono la scelta giusta. La scelta della libertà.
Ma nelle difficoltà dell’immediato dopoguerra e nel clima della guerra fredda e dello scontro ideologico, che in Italia contrapponeva fautori dell’Occidente e sostenitori dello stalinismo, non furono compresi e incontrarono ostacoli ingiustificabili.
Grazie al coraggio, all’azione instancabile e a volte faticosa delle associazioni degli esuli istriani, dalmati e della Venezia Giulia, il tema delle foibe e dell’esodo è oggi largamente conosciuto dalla pubblica opinione, è studiato nelle scuole, dibattuto sui giornali.
Le sofferenze subite dai nostri esuli, dalle popolazioni di confine, non sono, non possono essere motivo di divisione nella nostra comunità nazionale. Al contrario, richiamo di unità nel ricordo, nella solidarietà, nel sostegno.
Ribadendo lo stupore e la condanna per inammissibili tentativi di negazionismo e di giustificazionismo, segnalo che il rischio più grave di fronte alle tragedie dell’umanità non è il confronto delle idee, anche tra quelle estreme, ma l’indifferenza che genera rimozione e oblio.
Sono passati ottanta anni da quella immane tragedia che colpì i nostri concittadini nelle zone di occupazione jugoslava.
Oggi possiamo guardare, con sguardo più limpido e consapevole, al grande, concreto, storico progresso politico, culturale, di amicizia e di cooperazione che la democrazia e il percorso europeo hanno recato in quelle zone un tempo martoriate da scontri etnici e ideologici.
Progresso ulteriormente consolidato dall’inserimento, da qualche giorno, della Croazia nel prezioso ambito di pienezza dell’Unione rappresentato dall’area Schengen.
La storia ci ha insegnato che la differenza è ricchezza, non una malapianta da estirpare. Che i muri e i reticolati generano diffidenza, paura, conflitti.
Che il nazionalismo esasperato, fondato sulla repressione delle minoranze, sulle pretese di superiorità o di omogeneità etnica di lingua e cultura, produce inevitabilmente una spirale di violenza e di guerra.
Che le ideologie basate sulla negazione dei diritti individuali, in nome della superiorità dello Stato o di un partito, lungi dal risolvere le controversie, opprimono i cittadini e sfociano in gravissime tragedie. Che la prepotenza e l’uso della forza non producono mai pace e benessere, ma generano violenza e gravi ingiustizie.
La civiltà della convivenza, del dialogo, del diritto internazionale, della democrazia è l’unica alternativa alla guerra e alle epurazioni, come purtroppo ci insegnano – ancora oggi – le terribili vicende legate all’insensata e tragica invasione russa dell’Ucraina. Un tentativo inaccettabile di portare indietro le lancette della storia, cercando di tornare in tempi oscuri, contrassegnati dalla logica del dominio della forza.
Così come la presenza di segnali ambigui e regressivi, con rischi di ripresa di conflitti, ammantati di pretesti etnici o religiosi, richiede di rendere veloce con coraggio e decisione il cammino dell’integrazione europea dei Balcani occidentali.
Italia, Slovenia e Croazia, grazie agli sforzi congiunti e al processo di integrazione europea hanno fatto, insieme, passi di grande valore.
Lo testimoniano – come è stato poc’anzi ricordato – Gorizia e Nova Gorica designate insieme unica capitale europea della cultura del 2025.
I giovani che vivono ai confini dei nostri Paesi, mantenendo l’orgoglio delle proprie identità, hanno acquisito la consapevolezza di appartenere a un’area con un futuro comune che presenta grandi opportunità – economiche, sociali, culturali – che soltanto la convivenza, la compresenza, il dialogo, la pace possono offrire.
Dialogo che si alimenta e si fortifica nell’attenzione costante e reciproca ai diritti delle rispettive minoranze.
Anche per quanto riguarda la comprensione storica, si è fatta molta strada nella collaborazione. Si tratta di rispettare le diverse sensibilità e i differenti punti di vista. Sapendo che la lezione della storia ci insegna a non ripetere errori e a non far rivivere tragedie, men che mai a utilizzarle come strumento di lotta politica contingente.
Scrive Claudio Magris, acuto interprete della storia e della cultura del confine orientale: “Ancor più inammissibile e sacrilego sarebbe se gli italiani e gli slavi usassero i loro morti per attizzare odi reciproci, in una terra il cui senso – come hanno visto i grandi scrittori triestini – è la compresenza di culture, l’oppressione o scomparsa di una delle quali significa una mutilazione per tutti”.
Le prevaricazioni, gli eccidi, l’esodo forzato degli italiani dell’Istria, della Venezia Giulia e della Dalmazia costituiscono parte integrante della storia del nostro Paese e dell’Europa.
Alle vittime di quelle sopraffazioni, ai profughi, ai loro familiari, rivolgiamo oggi un ricordo commosso e partecipe. Le loro sofferenze non dovranno, non potranno essere mai sottovalutate o accantonate.
Troveranno corrispondenza, rispetto e solidarietà a seconda di quanto saremo in grado di proseguire sulla strada di pace, di amicizia, di difesa della democrazia e dei diritti umani, intrapresa con l’approvazione della Costituzione Repubblicana, con la scelta occidentale ed europea, con la costante politica per il dialogo, la comprensione, la collaborazione tra i popoli.

Risorse

https://www.quirinale.it/elementi/79131