Se le imprese italiane investissero in tutela e ripristino della biodiversità 93 euro all’anno per ogni milione di fatturato, sarebbe possibile raggiungere l’ambizioso obiettivo nazionale di ripristinare entro il 2050 il 90% degli habitat di cattivo stato di conservazione, ovvero 723.500 ettari. Il costo annuale necessario per sostenere azioni di recupero è pari a 260 milioni di euro, ovvero lo 0,013% del PIL nazionale. Per ciascun euro investito, inoltre, si stima un ritorno in benefici per la collettività pari a 14,7 euro. Sono alcuni dei dati sul ruolo cruciale che il settore privato può svolgere nel contrasto al danneggiamento degli ecosistemi presentati in occasione del European Business & Nature Summit 2023 , iniziativa della Commissione Europea organizzata in collaborazione con lo spin-off dell’Università di Padova Etifor, il Forum per la Finanza Sostenibile, la Regione Lombardia e la European Business & Biodiversity Platform.

L’evento, al quale hanno partecipato in presenza oltre 350 persone provenienti da circa 200 organizzazioni, nasce con la finalità di supportare proprio il settore privato nell’implementazione e nel potenziamento di modelli di business che prendano in considerazione approcci nature-positive, ovvero orientati ad arricchire la biodiversità proteggendo o ripristinando gli ecosistemi, attraverso pratiche in grado di mettere la natura al centro dell’economia globale. Abbiamo visto nell’articolo Stato della natura in Europa: gli ecosistemi danneggiati hanno bisogno di essere ripristinati quanto ciò sia necessario.

La fotografia del contributo che queste politiche possono generare è fornita da un’analisi del team di Etifor e si basa sullo studio che ha dato vita al Regolamento sul Ripristino della Natura (Nature Restoration Law) dell’Unione Europea: l’Impact Assessment Study. Secondo lo studio, le attività di recupero e conservazione della biodiversità in Italia porterebbero entro il 2050 a benefici economici complessivi per quasi 70 miliardi di euro. Ciò dipende dalla capacità degli ecosistemi ricchi di biodiversità di fornire servizi ecosistemici, come lo stoccaggio e il sequestro del carbonio, la regolazione della qualità dell’acqua e il controllo dell’erosione, l’impollinazione, la produzione di materie prime rinnovabili (come legno e biomasse a uso energetico, cibo e fibre), la gestione del rischio di alluvioni e servizi culturali, ricreativi o turistici.

Questi obiettivi di ripristino della biodiversità sono piuttosto ambiziosi – spiega Alessandro Leonardi, amministratore delegato di Etifor, intervenuto al summit – ma sarà possibile raggiungerli tempestivamente se i governi e il settore privato potenziassero le collaborazioni per realizzare un’economia nature-positive, supportando un cambio di paradigma basato su nuovi modelli di sviluppo sostenibile. Occorre però sfatare definitivamente il mito che vede le imprese come attori quasi esclusivi delle crisi ambientali in atto: le cause sono sistemiche e il settore privato ha un interesse diretto nel contribuire a modificare il corso degli eventi, essendo tra le principali vittime in caso di inazione”.

Secondo il World Economic Forum, infatti, più della metà del PIL globale, pari a 44.000 miliardi di dollari, è generato da attività economiche che dipendono unicamente dalla natura e dai suoi servizi, coinvolgendo settori trainanti come energia e agricoltura. I rischi operativi ai quali si va incontro in caso di danneggiamento del patrimonio naturale spaziano dall’aumento dei costi di approvvigionamento al deterioramento dei prodotti, dall’incapacità di pianificare la produzione alla perdita di valore dei terreni, senza contare i costi di intervento per ripristinare le aree danneggiate e garantire la sopravvivenza delle comunità locali. Attualmente, i livelli di finanziamento a protezione della biodiversità esistenti coprono solo il 16-19% della necessità complessiva.

Secondo l’ultimo Global Risks Report del World Economic Forum4 dei 5 principali rischi globali che affronteremo nei prossimi 10 anni saranno proprio di natura ambientale: la perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi sono il quarto rischio più grande che dovremo affrontare, preceduto dall’incapacità di mitigare il cambiamento climatico, dal mancato adattamento ai cambiamenti climatici e dai disastri naturali e condizioni meteorologiche estreme. A livello globale, secondo stime della Banca Mondiale, la crisi della biodiversità potrebbe comportare una contrazione del PIL globale fino a 2,7 trilioni di dollari entro il 2030, ovvero una riduzione annua del 2,3%, rispetto a uno scenario in cui non vengano raggiunti punti di non ritorno climatici ed ecologici.

La biodiversità italiana

L’Italia, paese europeo con la più alta biodiversità, presenta un quadro di conservazione piuttosto complesso. Il 43,4% delle specie tutelate dalla Direttiva Habitat, esclusi quindi gli uccelli, risulta in buono stato di conservazione (contro la media europea del 27,5%), a partire dal 66,6% dei rettili, mentre quelle considerate in cattivo stato di conservazione, tra cui primeggia il 58,9% delle specie ittiche protette, sono il 16,3% del totale (quando la media europea è del 20,6%). Per quanto riguarda gli uccelli, invece, il 63% delle specie nidificanti in Italia risulta in cattivo o inadeguato stato di conservazione. La Lista Rossa nazionale classifica 71 specie (ossia il 25,5% delle specie valutate) come minacciate di estinzione, di cui 10 in pericolo critico. Si tratta di un indicatore importante, considerando che proprio l’avifauna rappresenta il 46,6% delle specie protette in Italia. Per quanto riguarda gli habitat, soltanto il 9,8% delle tipologie in Direttiva è da considerarsi in uno stato di conservazione buono, contro la media europea del 14,7%.

 

ARTICOLO DI https://ambientenonsolo.com/ambiente-come-le-imprese-possono-salvare-la-biodiversita/